Peppe Verduci (1921 - 2008) parla della sua fanciullezza a Lazzaro

Le origini

Sono nato nel 1921 a Lazzaro, in provincia di Reggio Calabria. È lì che ho vissuto i primi anni della mia vita per migrare poi, all'età di 11 anni, 1932, in quel di Aiello Calabro in provincia di Cosenza, ove mio padre era stato nominato cantoniere dell'ANAS, carica prestigiosa di quei tempi.

Di Lazzaro ricordo poche cose! Ero ancora fanciullo e le rimembranze mi sfuggono dalla mente. A stento mi sovvengo per raccontare la vita grama che negli anni '20 si era costretti a sopportare. La vita di un tozzo di pane senza companatico, dello stomaco vuoto andando a letto la sera. Per tutti, specie per la classe operaia, era così, ma in particolare per la mia famiglia che già contava sette persone per vederla poi di undici ad Aiello Calabro. Una famiglia numerosa che a stentato a sopravvivere. In quegli anni a Lazzaro si costruiva la nuova Litorale che da Reggio doveva portare verso Melito Porto Salvo e, ricordo, i lavori erano stati affidati alla ditta Puricelli che aveva invaso il paese di mezzi mai visti fino all'ora.

Rulli compressori, scavatrici, grosse cisterne per pompare acqua sul selciato, picconi ad aria compressa, ecc. ecc. Un frastuono tutti i giorni, e noi ragazzi ci divertivamo in mezzo a quei rumori assordanti saltando da una macchina all'altra, redarguiti dagli operai, o sgridati dai proprietari terrieri perché rubavamo i limoni e i bergamotti delle terre ormai espropriate per fare passare la nuova strada. Ed un giorno, quello della Candelora, 2 febbraio 1929, la morte mi accarezzò! Giocavamo su quell'immenso cantiere facendo la gara delle sassate, eravamo tutti imbrattati di catrame, nere erano le mani neri i volti. Poi la sera, quando gli operai smettevano di lavorare e i capi cantiere si allontanavano prendevamo d'assalto la cisterna piena d'acqua o pompavamo a turno per lavarci, due alla volta, per non tornare a casa imbrattati, correndo il rischio di essere picchiati dalla mamma. Eravamo spensierati! Veri monelli! Ma proprio in una di quelle occasioni vidi la morte. Dopo avere pompato per fare lavare gli altri, toccò a me azionare il rubinetto e non appena le mani avevano trovato il getto dell'acqua, i miei compagni hanno abbandonato la cisterna per il sopraggiungere di un capocantiere, e la stessa, senza più freni, fece abbassare le stanghe all'estremità delle quali vi erano due bulloni dei quali uno mi si conficcò nella testa.

Caddi a terra svenuto e fui soccorso proprio dal capocantiere. Mi portarono a casa della zia Ciccia che abitava lì vicino ed appena rinvenni ricordo la zia che gridando diceva. "Fuocu meu, stu figghiolu morì'. Ero tutto insanguinato! Mi lavarono per bene e cercavano un medico, ma l'unico che c'era a Lazzaro, il medico condotto, era fuori sede. Presto dicevano bisogna chiamare la madre e portarlo subito a Reggio in ospedale. Col carrozzino di Rinaldo si partì per Reggio ma a Pellaro, poiché perdeva ancora sangue ritennero opportuno fermarsi alla farmacia per qualche pronto intervento. Volle il caso che in quella farmacia c'era proprio un medico, il dottore Giorgine che non dimentico mai. La prima diagnosi fu quella di affermare che il cranio non era stato sfondato ma che la ferita interessava soltanto il cuoio capelluto. Nella stessa farmacia ebbi tredici punti di sutura e fui riportato a casa. Dopo 7 giorni lo stesso medico mi tolse i punti e disse: "Questo ragazzo è nato oggi”.

Altro guaio mi capitò sul greto del fiume S. Vincenzo. In quegli anni Lazzaro era senz'acqua. Si attingeva alla contrada "Schiavo", ma non da una sorgente. Con un barattolo si raccoglieva il prezioso liquido da certe bolle che venivano fuori ai margini del Torrente e dopo aver riempito "U bumbulu" (il recipiente di argilla costruito dai vasai di Lazzaro Vecchio) lo si metteva sulle spalle che venivano coperte dalla mamma con una fascia di pezza soffice per non fare indolenzire le ossa. Ricordo di essermi incamminato verso casa con quel recipiente, ma poi più nulla. Invece ero svenuto per strada. Mi soccorsero e la diagnosi fu quella della debolezza organica. Non avevo mangiato! Solo un po' di pane la mattina. Qualcosa l'avrei mangiata la sera se la mamma fosse riuscita a racimolare il necessario. Scappavo sempre verso Rafale! Li c'era la zia Peppina e lo zio Nino che avevano le terre e qualcosa si trovava sempre da mettere nello stomaco.
La mia casa non era proprio nel centro di Lazzaro. Era a S. Elia. Per raggiungere il centro abitato si doveva attraversare il fiume S. Vincenzo. Più che un fiume era un torrente, il quale, quando era in piena era impossibile affrontarlo. Si attendeva sempre il calare del suo impeto. Quel giorno era piovuto a dirotto. Ho tardato per tornare a casa in attesa che le acque del torrente defluissero. Assieme a Mico abbiamo cercato la parte più larga delle acque per non essere trascinati dalla corrente. Mico aveva sulle spalle un sacco di pane, io solo la cartella della scuola. Ad un certo punto Mico cadde, non perché trascinato, ma solo per una banale caduta. Il sacco del pane andò nell'acqua e lo tirammo tutto intriso. Quindi non ho compiuto atti di salvataggio. Dopo una settimana però comparvi sulla “Domenica del Corriere” come un eroe. In tutta la prima pagina a colori, coi disegni di Beltrame, risultavo ai margini di un ipotetico e grande fiume, con Mico in mezzo al guado con un sacco sulle spalle ed io che, con in mano una grande corda, ero riuscito a salvare quel poveraccio che stava annegando. Non era così! Rinaldo, proprietario di un negozio alimentare che attendeva il pane riportato da Mico, proprietario anche di un carrozzino e di un cavallo per raggiungere il centro del paese, ha scritto un articolo sui giornali tentando di scuotere la sensibilità degli amministratori dell'epoca per la costruzione di una stradella, per non guadare il fiume. La Domenica del Corriere ha trovato subito l'eroe del giorno. Ero io!

 Altri episodi potrei citare accaduti nella mia fanciullezza trascorsa a Lazzaro, ma sono fatti che rientrano nella normalità di una vita vissuta di un ragazzino quale io ero fino a quell'età. Accalappiavo le lucertole, rompevo i nidi sugli alberi, ammazzavo i ranocchi nel pantano, rubavo le ciliegie, marinavo la scuola, facevo arrabbiare la mamma. Di ciò era sempre fedelissimo il cugino Nino che vive ancora a Lazzàro e col quale, quando mi incontro, raccontiamo il nostro passato impregnato di monellerie, di spensieratezza, di candore. Ora, all'età di 78 anni, c'è tanto da raccontare. C'è tutta una vita costellata di tante cose belle, ma anche di tante amarezze che la stessa riserva ad ognuno di noi.

Il trasferimento

Lasciai Lazzàro la mattina del 26 gennaio del 1932. La stazioncina con la scritta "Motta San Giovanni” e non Lazzàro, era lì, quasi deserta e fredda per accogliere la famigliola che imboccava la strada di un lido sconosciuto, di un paese mai sentito nominare, ma ove c'era il babbo ad attendere la sua nidiata. Erano le sei. L'accelerato proveniente da Roccella Jonica giunse in perfetto orario. Bocale, Pellaro, San Gregorio, erano i paesini ove il trenino doveva fermarsi. A Reggio si doveva cambiare e prendere il diretto fino a S. Eufemia, poi un altro accelerato fino alla stazione di "Serra Aiello" ove ci attendeva Carlo Aloisio con un vecchio merlo giallo per portarci, dopo venti chilometri di strada impervia, ad Aiello Calabro. Il freddo quella mattina era intenso. La famigliola, raccolta sotto lo sguardo attento della mamma, tutta imbacuccata, con pochi bagagli, intraprese il suo cammino per un nuovo orizzonte. I parenti ormai erano lontani, papà non era con noi, io ero il più grande dei cinque figli, ma avevo appena undici anni, ero inesperto e non so quanto aiuto ho potuto offrire per il raggiungimento della meta. Oggi bastano tre ore di macchina per fare quel tragitto, ma quel giorno c'è voluto tutto intero per trovare un po' di ricetto.

Sul treno ero divenuto curioso! Mentre gli altri stavano raccolti, quasi abbracciati in un angolo dello scompartimento semi gelato, io, noncurante degli spifferi provenienti dal finestrino, volevo stare lì, impalato dietro il vetro per godere quegli alberi che fuggivano, le vacche che perdevo d'occhio, le montagne che si avvicinavano sempre più, poi ancora una pianura estesa, poi una galleria! Un mondo di fantasmi, un sogno che stava per realizzarsi, sperduto così come ero, assorto in mille pensieri fugaci, in attesa di vedere il nuovo, di toccare cose diverse da quelle viste fino a quegli attimi. Il rumore delle rotaie non mi distraeva, anzi, col suo ritmo cadenzato sembrava allietare le rimembranze fuggenti che si impadronivano di me istante dopo istante. Una favola! Attimi cocenti cosparsi m tutto il mio essere, che avvolgevano la mia fantasia, che pungevano fortemente tutta la mia intimità. Dopo S. Eufemia era giorno Pieno. Il ciclo era coperto e i nuvoloni neri minacciavano la pioggia! Il mare a Falerna era agitato, ora il trenino non correva molto, ed io mi spostavo un po' verso i monti e un po' nel correo verso il mare, a seconda del paesaggio che ritenevo di godere meglio. Dopo Falerna, ricordo come fosse oggi, al di là della immensa pianura, man mano si alzavano le colline, fino a raggiungere la vetta del monte Cucuzzo tutto imbiancato di neve che la faceva da padrone dominando tutta la vallata che va da Lago a Campora, ad Amantea. Carlo era lì sul marciapiede, tutto imbacuccato con un giaccone nero di pelle in uso allora agli autisti per ripararsi dal freddo nella macchina perché senza riscaldamento sfidando il vento di tramontana che sibilava fra i fili delle ferrovia, alle prese con il bavero del giaccone svolazzato dal vento, in attesa della famiglia che doveva portare ad Aiello, perché incaricato da mio padre. Noi eravamo privi di cappotto. Eravamo già infreddoliti sul treno, e quel freddo sulla stazioncina ci penetrava nelle ossa. La mamma ed una sorellina hanno trovato posto sul sedile davanti accanto all'autista, mentre gli altri quattro, stretti stretti, abbiamo occupato il sedile posteriore riscaldandoci con i nostri corpi.
La strada, tutta serpeggiante, si inerpicava su per la montagna ed in ogni tornante i corpi sballottati si stringevano sempre più uno contro l'altro, quasi facendosi male. Un silenzio di tomba in quella macchina! Solo Carlo ogni tanto scambiava la parola con la mamma. Noi, con gli occhi sbarrati, ci guardavamo l'uno con l'altro, quasi sbigottiti, increduli del nuovo mondo a cui andavamo incontro. Sulla piazzetta non c'era un'anima, il freddo di montagna era più intenso e non permetteva l'uscita di casa. Qualche curioso era sotto le arcate delle porte e gustava il nostro disorientamento ed il modo impacciato con cui ci muovevamo. La presenza del babbo ci ha in qualche modo rincuorati. Io già mi sentivo forte! Papa era una garanzia maggiore e subito ho sentito nel mio intimo il risveglio dal torpore in cui ero caduto. Quel brodo di carne vaccina, preparato dal babbo e scodellato caldo caldo, ha ritemprato le nostre membra rendendoci più agili e più intraprendenti. Da quel giorno per me è cominciata una nuova vita, la vita vissuta ad Aiello Calabro che mi ha indotto a scrivere queste pagine perché costellata da vicende che voglio imprimere sulla carta per farle leggere e leggerle io stesso, finché avrò vita. Gli anni trascorsi ad Aiello si differenziano da quelli passati a Lazzaro. Lì sono stati gli anni della fanciullezza, qui sono quelli che hanno costruito la mia personalità, il mio modo di essere, che hanno confezionato gli avvenimenti dell'età dell'adolescenza che man mano crescevano di interesse col crescere dell'età.